Le scorribande di uno scatenato Insigne mantengono a galla gli azzurri. Ma dall’inzio no?
di Domenico Ascione
A Napoli c’è solo uno sport più praticato del pallone: la dietrologia del pallone. «Bisognava mettere Tizio, fuori Caio che non si fida di muoversi, Zunìga sulla destra, Armero che nce l’avimmo accattato ‘a ffà?, De Sanctìs me fà squaglià ‘ncuorpo…». Sì, è chiaro, col senno di poi allena pure mio nonno, ma l’evidenza è evidente, perbacco e perarianna; addì dieci di febbraio dell’anno del Signore duemilatredici, via panzarotto-Panzev e dentro il folletto col 24.
Non c’è proprio paragone: uno deambula per i giallognoli prati invernali con incedere da pachiderma appassito, l’altro zompetta e sfacchina arzillo come un micetto in calore. D’accordo, Goran c’ha esperienza, c’ha classe, una Champions in bacheca e per giunta (e poi di nuovo perbacco) il dente avvelenato, però lasciar seduto un Insigne così, caro Mistèr, l’è proprio un delitto imperdonabile. Il primo tempo di Roma va archiviato alla svelta: squadra lenta, svogliata, si direbbe
quasi conservativa.
Siamo onesti, usciamo dall’Olimpico con un punticino immeritato, frutto di un vistosissimo calo laziale nella ripresa e del provvidenziale ingresso in partita di un ragazzino dal talento immenso. «È giovane, è discontinuo», basta con la litania, bella sì la giovinezza, ma si fugge tuttavia.
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