Una ferita che brucia, perché fresca, profondissima e forse addirittura immeritata. Dopo un esordio che aveva lasciato ben sperare, siamo fuori dal “Mondiale dei Mondiali”, battuti dall’ennesima zuccata vincente di un Diego Godín sempre più “héroe celeste”, come titola la versione uruguaya de El País. Fuori ancora una volta in quelli che ironicamente si definiscono “gironi all’italiana”, proprio come nel 2010, anche se contro avversari (Costa Rica a parte) sicuramente meno morbidi. Spagna, Inghilterra e adesso Italia, la terza “grande” a soffocare nella torrida canicola brasileira. E quando cadono le grandi, si sa, il rumore arriva fino in capo al mondo. Ci vanno giù pesante i cugini d’oltralpe de L’Équipe, che ci schiaffano in faccia un “L’Uruguay plus mordant” (Uruguay più mordace), chiaro riferimento allo sconsiderato gesto di Suárez sul finire di gara. Marca.com parla addirittura di “milagro” (miracolo), sottolineando però, con invidiabile onestà intellettuale, “una buena Italia, liderada por Verratti” (credo non ci sia bisogno di traduzione, no?) mentre dall’altra parte una Celeste che fa il fantomatico massimo col minimo sforzo, sfruttando appieno l’arma letale delle palle inattive. Torniamo a casa, dunque; è triste ammetterlo, ma è così. E a nulla serviranno le recriminazioni arbitrali, le dimissioni fresche fresche di Prandelli e Abete, la mancata convocazione dei vari Destro, Pasqual, Rossi, Criscito. Uscire per la seconda volta consecutiva prima degli ottavi deve far riflettere su un movimento ahinoi in piena crisi esistenziale. Bisogna avere più coraggio, insistere sui giovani di talento (e Verratti, ad esempio, ne ha da dare in beneficenza), rifondare, ripartire, risorgere dalle proprie ceneri come nessuno più di noi sa fare. Certo, ci aspettavamo magari la fucilata del pistolero, e invece è arrivato un morso. Anzi, visto che qua siamo recidivi, un ri-morso.
di Domenico Ascione (Twitter: @vesuvilandia)
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