a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)
Ebbene sì, lo confesso. Ho cantato con Gigi D’Alessio. Prima che diventasse così famoso, prima che sposasse la Tatangelo e organizzasse i brindisi di fine anno in piazza del Plebiscito, davanti alle telecamere.
Ma a Napoli, ho fatto pure altro. Un anno solo, è vero, ma con addosso quella maglia che, se solo ci ripenso, il cuore comincia a battere forte. Un ragazzino di ventitre anni venuto dalla Calabria, con i capelli con la riga in mezzo e il desiderio di conquistare quella città in cui si il calcio non è solo uno sport, è fede. Mister Guerini mi piazza in attacco al fianco Agostini, il Condor, quello che ha fatto tanta gavetta in serie B e tiene l’esperienza giusta per portare il Napoli in coppa UEFA. Mi dice «Passala sempre a me, ma se sono marcato stretto, tira in porta».
E così faccio, alla prima di campionato, contro la Reggiana. Il San Paolo esplode, io mi inginocchio verso la curva B e, piccolo come sono con addosso la numero 10, per un attimo mi sento come i miei predecessori. Non li nomino, o commetto sacrilegio. Mi basta sapere che, almeno nel fisico, potevo definirmi alla loro altezza.
Cominciamo a credere che questo Napoli possa arrivare lontano. Invece ne stecchiamo una dopo l’altra. Pari in casa, sconfitte rovinose lontano dal San Paolo e il presidente che manda via Guerini e chiama Boskov. La faccia piena di rughe, il modo di parlare che ricorda Ivan Drago, che sottovoce dice a Rocky «Ti spiezzo in due».
E mister Boskov fa pure peggio. Correre, sudare, sudare e correre. Un moto perpetuo per chi deve risalire la china e far vedere di meritare quella maglia.
Riprendiamo a vincere, ad occupare quei posti in classifica che più ci sono congeniali. E occupiamo pure le scomode poltrone delle tv private. Soubrette che bucano l’obiettivo, ma che non azzeccano il congiuntivo. Esperti di pallone, con la pancia dei giocatori di bocce e i ragazzini delle scuole calcio che, all’epoca, portavano la bic e il pezzo di carta per avere un autografo.
E poi c’erano loro, i neomelodici del momento. Cantanti con un repertorio di 3 pezzi e l’agenda piena di serate fino all’anno successivo. Mi si presenta Gigi, magro come un chiodo, con i capelli ricci e un gilet che non vedevo più dai tempi del padrino.
Mi dice:
«Benny, tu sei un idolo. Ti piacerebbe duettare con me?»
«Io? Ma se stono perfino sotto la doccia?»
«E che fa? In sala di incisione riduciamo al minimo gli errori. E poi i tifosi ti vogliono bene. Accetteranno pure qualche stonatura».
Da lì in poi, è storia risaputa. Il pezzo, il video nel San Paolo e migliaia di cassette pirata che girano negli stereo. I compagni mi prendono in giro, D’Alessio mi chiama un giorno e l’altro pure per dirmi grazie e io che penso a quanto possa essere bello invecchiare all’ombra del Vesuvio.
Peccato che a fine campionato mi vendano all’Inter. Quella squadra che, a pochi secondi dalla fine della stagione, ci soffia il posto in Coppa UEFA. Saluto il mister, i tifosi e pure Gigi che, dopo qualche mese, incide lo stesso pezzo con altri calciatori. Un po’ ci resto male, un po’ mi dico «ma chi se ne frega, faccio il calciatore mica la popstar».
Eppure, lo confesso, ogni tanto quel pezzo lo riascolto. Specie quando mi si chiede del Napoli e di quella mia stagione con addosso la numero 10. E vengo assalito dai ricordi dell’anno più bello della mia carriera.
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