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PAQUIPEDIA – Corri, Amadou

Diawara ©Getty Images

Basta con i luoghi comuni. Ma chi l’ha detto che in Africa ci si svegli, ogni giorno, gazzella oppure leone. In Guinea, ogni mattina per anni, mi sono svegliato nei panni di un ragazzo col sogno di giocare a calcio. Non avevo bisogno di correre scalzo nella savana per non essere azzannato da una belva, né di diventare cibo per gli avvoltoi. Correvo, con scarpette e pantaloncini, inseguendo un pallone. Pochi centimetri di cuoio cuciti insieme che rappresentavano il desiderio più grande per un bambino nato in quel continente nero che sforna atleti resistenti e veloci come il vento.
Doti che sfoggiavo in mezzo al campo mentre l’allenatore provava ad insegnarmi a “leggere una partita”. Credevo mi stesse prendendo in giro la prima volta che pronunciò quell’espressione. Invece, quella era una perla di saggezza di cui avrei fatto buon uso anni dopo quando un osservatore, venuto dall’Italia, mi propose di lasciare la mia terra per sbarcare in Europa, per giocare nel campionato in cui Pirlo, De Rossi, Pogba erano divenuti idoli di milioni di tifosi e calciatori così forti da poter raggiungere qualsiasi traguardo. Avevano imparato a ragionare, a dosare le energie per poter leggere una partita e dettarne i tempi.
Pochi mesi a San Marino per mettermi in gioco, per dimostrare che quel ragazzino di diciassette anni peccava d’esperienza, ma non di talento né di buona volontà. Che quel negretto (termine che non mi offende se pronunciato col sorriso bonario) fosse destinato a ben altri palcoscenici rispetto alla Lega Pro. Se ne accorsero a Bologna. “Questione di vicinanza” suggerirà qualcuno, “questione di lungimiranza” dirà qualcun altro, perorando la causa di un ragazzino che gioca a testa alta e corre e lotta per quattro.
Trentaquattro partite su trentotto nel mio primo anno in serie A. Prima Delio Rossi, poi Roberto Donadoni avevano costruito il loro Bologna considerando il sottoscritto come l’ingranaggio indispensabile per far funzionare tutto. «Corri Amadou» urlavano dalla panchina, tanto il primo quanto il secondo. E io correvo e recuperavo palloni da servire al centravanti smarcato oppure al trequartista che avrebbe fatto saltare il banco con un tiro da fuori area.
Una di quelle cose che imparerò col tempo. In fondo, quando hai diciannove anni, ti ripeti che ci saranno centinaia di lezioni da scolpire nella memoria. E, allora, meglio apprenderle in un campo di allenamento in cui, alla cattedra, siede un “maestro di campagna”. Come Maurizio Sarri. Quell’allenatore con gli occhiali e la cadenza toscana che, al mio arrivo, ha detto «Ragazzino, comincia ad allenarti e a metterti in forma, poi riparleremo della tua posizione in campo». E io ho cominciato a correre, sicuro che quella maglia azzurra presto o tardi l’avrei indossata da protagonista. Un paio di mesi d’attesa ed eccomi qui a parlare da titolare. Un ragazzino che corre e lotta per quattro su ogni pallone.
Dicono di me che sono un predestinato. Tre, quattro anni al massimo e sarò al Barcellona, oppure al Manchester City e magari vincerò la Champions e il mio cartellino costerà milioni di euro. Per ora vivo il presente. E corro. Come si fa in Africa ogni giorno, pur senza essere gazzella o leone.

 

 

A cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa819)

 

 

 

 

 

 

Gennaro Arpaia

Iscritto alla facolta di Giurisprudenza della Federico II Napoli. Giornalista pubblicista iscritto all'albo da giugno 2013.

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