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Napoli Calcio: dal 1926 ad Oggi

 

Come tutte le storie più belle anche quella del Napoli Calcio inizia con “C’era una volta…”.

Siamo nel 1926 e un uomo facoltoso, tale Giorgio Ascarelli (visionario imprenditore partenopeo), decide che è giunto il momento di formare una squadra di calcio unica per la città di Napoli.
Fino a quel momento infatti, il tifo cittadino è diviso al seguito di diverse squadre come l’Audace, l’Open Air e la Juventus del Vasto.

Il ricco commerciante, già presidente dell’InterNaples, di fatto squadra antenata di quella attuale, il 1 agosto fonda l’Associazione Calcio Napoli, con un accordo formalizzato a tavola con del vino dei proprietari del ristorante D’Angelo.

 

Giorgio Ascarelli

 

Primi Campionati del Napoli

Il presidentissimo, fine e abile imprenditore, va  invece in difficoltà quando deve vestire l’abito da dirigente sportivo.

La conferma arriva dai disastrosi primi due campionati 1926/27 e 28/29, terminati in entrambi i casi con una retrocessione sempre evitata grazie alla Figc, che premia la squadra azzurra con un doppio ripescaggio. Ascarelli e i suoi successori ebbero però l’intuizione di creare una sorta di settore giovanile, seppur primitivo, tra le cui fila siglava i suoi primi gol un certo Attila Sallustro.

 

Gli Anni d’oro di SAllustro e Vojak

La stagione spartiacque per la storia del Napoli è quella 1929/1930. Grazie al suo carisma e anche a un discreto conto in banca, il presidentissimo Ascarelli convince la Figc ad allargare il campionato fino a 18 compagini e ad inserirci ovviamente anche la sua squadra.

Si tratta del primo campionato a girone unico. La panchina azzurra  viene affidata a un inglese, tale William Garbutt, vincitore di ben due scudetti con il Genoa. La squadra è discreta e può contare sul 21enne Sallustro, leggendario attaccante paraguaiano poi naturalizzato italiano, capace di segnare ben 22 reti al suo primo anno nella massima serie.

Quell’anno i ragazzi di Garbutt chiudono a metà classifica, ma le premesse sono ottime.
La stagione successiva arriva all’ombra del Vesuvio  una coppia di mezze ali che insieme a Sallustro segneranno valanghe di gol: Anton Vojak, che il calciomercato Napoli dell’epoca sottrasse alla Juventus e Mihalic, dotato di qualità tecnico-tattiche sopraffine. Quella formazione chiude quinta in classifica, con Vojak a 20 reti, Sallustro 13 e Mihalic 10.

Gli azzurri giocano un bel calcio e divertono, soprattutto con quel trio davanti, ma difficilmente si riesce ad andare oltre il quarto, quinto posto in classifica.
Troppo forti le settentrionali: Juventus, Ambrosiana (futura Inter) e il Bologna sono un gradino avanti a tutte. E allora ci si mette il calcio con le sue regole strampalate.

La migliore annata napoletana della decade ’30 va di pari passo con la peggiore stagione realizzativa di Sallustro (5 gol). A fare la differenza è ancora una volta Vojak, che ne fa 21 in campionato portando i suoi compagni di squadra al terzo posto in classifica. Il piazzamento vale anche la partecipazione alla massima competizione internazionale dell’epoca, la Coppa Mitropa.

Inutile dire che il livello delle squadre europee è altra cosa rispetto a quello delle italiane e la Coppa sarà quasi sempre dominio personale delle squadre dell’est europeo che in quegli anni insegnano calcio al mondo, come lo Slavia Praga, il Ferencvaros e l’Austria Vienna. Ma quella è un’altra storia.

 

La Presidenza Lauro e il Declino

Nel 1936 il nuovo presidente azzurro è Achille Lauro, ricchissimo armatore napoletano che, con il senno di poi, poteva portare al Napoli almeno 3-4 scudetti, invece non ne arrivò nemmeno uno.

Forse non ci credeva abbastanza, oppure il Napoli fu per lui solo una vetrina per la sua pur notevole carriera politica. Fatto sta che a paragone le sue finanze potevano senz’altro equivalere ai più ricchi sceicchi dei tempi moderni. Sempre per un’altra legge del calcio, e forse di Napoli, se le premesse sono ottime e qualcosa può andar male, andrà male.

La squadra dopo gli addii di Vojak e Sallustro vive un rapido declino che la porta addirittura in serie B nel 1941. I campionati verranno fermati a causa della guerra e si riprenderà a calciare il pallone solo nel 1945.
Gli azzurri tornano in Serie A stabilmente nel 1950 dopo un caotico su e giù con la cadetteria. Saranno ben 11 i campionati consecutivi nella massima serie, poi si aprirà l’era Pesaola, altro capitolo importante della storia azzurra.

 

CURIOSITA’

Inizialmente il simbolo del Napoli doveva essere un cavallo di razza, ma leggenda vuole che nel 1927, dopo un campionato disastroso il cavallo si trasformò in un ciuccio malridotto.

Nei pressi del celebre Bar Brasiliano, ritrovo abituale dei tifosi azzurri, un appassionato esasperato dalle tante sconfitte, tirò fuori una curiosa esclamazione: “Sta squadra nosta me pare “o ciuccio ‘e fichelle: trentatrè piaghe e ‘a coda frucida” (questa nostra squadra mi sembra un asino che si lamenta per le sue trentatrè piaghe e per la coda moscia).

La battuta rabbiosa piacque così tanto che alcuni astanti la riportarono alla redazione di un giornale. Il quotidiano la riprodusse col disegno di un asinello mal ridotto, pieno di cerotti e con una misera coda.

 

 

 

 

Napoli 1950 – 1976: Storica Coppa Italia di Pesaola e il calcio totale di Vinicio

IL RITORNO IN SERIE A

Ritornata nella massima serie nella stagione ‘50/’51, il comandante Lauro decide di rinforzare la squadra con l’acquisto di Amadeo Amadei, centravanti della Roma scudettata. Nelle due stagioni successive gli azzurri non arrivano oltre il sesto posto in classifica e gli scarsi risultati spingono il presidente Lauro a scrivere una pagina importante della storia del calciomercato italiano: in vista della Serie A 1952/1953 acquista dall’Atalanta lo svedese Hasse Jeppson per la cifra, all’epoca spropositata, di 105 milioni di lire. I tifosi partenopei non impiegheranno molto tempo a soprannominare il nordico centravanti “o Banco ‘e Napule” per rendere immortale il ricordo della cifra spesa.

A Jeppson viene affiancato anche un calciatore che farà la storia del Napoli, prima in campo, poi in panchina da allenatore: Bruno “o Petisso” (il piccoletto) Pesaola. Attaccante brevilineo che sul breve fa la differenza, si rilancia a Napoli dopo un passato alla Roma e una frattura a tibia e perone che ne limiteranno per sempre il talento. Va inoltre iscritto nella lista degli argentini che faranno innamorare la platea azzurra.

La squadra è più che discreta con due-tre individualità niente male, ma i risultati faticano ad arrivare. Il miglior piazzamento degli anni ’50 saranno i due quarti posti nel 52/53 e nel 57/58. Attenzione però, nel 1955 sbarca a Napoli dal Brasile “O’ Lione”, ovvero Luis Vinicio, attaccante straordinario che prima di rivoluzionare il calcio italiano sulla panchina del Napoli si impegnò per oltre un decennio a terrorizzare i difensori del campionato a suon di gol. Resta il rammarico di aver visto giocare insieme Jeppson e Vinicio pochissime volte, ma quando lo hanno fatto si è visto e come: nella sfida contro la Pro Patria ad esempio, i due cannonieri giocano insieme per la prima volta e la partita si chiude sull’8-1 per gli azzurri, con tripletta di Vinicio e doppietta di Jeppson. Il 6 dicembre del 1959 intanto, viene inaugurato lo splendido Stadio San Paolo nel quartiere Fuorigrotta.

 

L’ERA PESAOLA

Le news del Calcio Napoli dei primi degli anni ’60 sono a metà tra il dolce e l’amaro. La squadra retrocede in Serie B dopo gli addii di Jeppson e Vinicio, ma la cadetteria darà modo a Bruno Pesaola, nel frattempo diventato allenatore, di dimostrare tutto il suo valore da tecnico. Nel 1962 gli azzurri, oltre alla promozione, riescono a conquistare la Coppa Italia pur non militando nella massima serie, impresa mai più eguagliata da nessuna altra formazione. Al ritorno in Serie A e all’addio di Pesaola, seguì un’altalena di retrocessioni e promozioni fino all’anno 1965/1966: Lauro, in piena campagna elettorale, mette mano al portafogli e oltre a richiamare in panchina “O Petisso” porta a Napoli Omar Sivori e Jose Altafini, che usando un’accezione moderna potremmo definire dei top player. La squadra mantiene le promesse e arriva al secondo posto a soli 5 punti dall’Inter campione. Nel ‘67/68 la storia si ripete e gli azzurri arrivano nuovamente secondi a un passo dal tricolore.

 

Bruno Pesaola

 

 

IL CALCIO TOTALE DI VINICIO

Negli anni ’70 è solo uno il nome di riferimento per la storia azzurra: Luis Vinicio. Tornato a Napoli in veste da allenatore nel 1973, fu il primo ad applicare in Italia il calcio totale olandese che poi il mondo avrebbe avuto modo di apprezzare nei Mondiali dell’anno successivo. Sivori e Altafini non ci sono più, ma al loro posto un gruppo eccezionale composto da ottimi calciatori come Juliano (prodotto della Primavera), Clerici, Bruscolotti e La Palma incanta l’Italia intera. Nel 1974/1975 il Napoli a detta di molti gioca il più bel calcio visto da queste parti, toccando vette mai più raggiunte nemmeno dall’armata guidata da Maradona. La squadra arriva a soli due punti dallo scudetto dietro la Juventus: decisive le due sconfitte negli scontri diretti, soprattutto quella di ritorno a Torino, dove l’ex Altafini a due minuti dal termine spense i sogni azzurri chiudendo la gara sul 2-1. Da quel momento, per tutti i tifosi azzurri Altafini sarà “Core ‘ngrato”. La cocente delusione non spegne la macchina perfetta creata da Vinicio: con l’arrivo di Beppe Savoldi per la cifra all’epoca scandalosa di 2 miliardi di lire, il Napoli conquista la seconda Coppa Italia battendo in finale il Verona per 4-0. Nel 1976 torna in panchina Pesaola dopo l’addio di Vinicio e il meccanismo inizia a scricchiolare. La squadra conclude i campionati a metà classifica fino al 1980, inizio del decennio della consacrazione. Ma da qui in poi è la storia di Krool e Maradona, nomi che meritano il giusto spazio.

 

CURIOSITA’

Bruno Pesaola, versione allenatore, era solito indossare sempre un cappotto di cammello divenuto con gli anni oggetto portafortuna: pare infatti che quando si presentasse in panchina senza cappotto il Napoli perdesse. Tante sudate nei mesi più caldi, ma anche tanti punti conquistati grazie al bel gioco e alla cabala.

 

DAL 1926 AD OGGI – I ruggenti anni ’80: Krol e Maradona firmano il periodo d’oro della squadra

Ad un passo dallo scudetto con Ruud Krol

 

 

 

Con i magnifici anni ’70 al termine, al Napoli di Corrado Ferlaino serve nuova linfa e nuove idee per soddisfare una piazza che in quegli anni, ha iniziato a raffinare il proprio palato con il bel gioco offerto da Vinicio prima e Pesaola poi. Nel 1980 la svolta arriva grazie a “Totonno” Juliano, ex stella e capitano della squadra, che viene scelto dal presidente come direttore generale dai pieni poteri. Almeno sulla carta. Ferlaino impone come allenatore Rino Marchesi, con Juliano che se la fa passare per buona, ma sul mercato non c’è margine per discutere con l’ex capitano del Napoli. Il colpo è di quelli da maestri: Ruud Krol, centrale difensivo dell’Olanda di Cruijff, viene preso dal Vancouver e nonostante l’età avanzata regalerà perle di rara bellezza all’ombra del Vesuvio. La squadra che si costituisce alle dipendenze di Marchesi è straordinaria: in porta c’è il “Giaguaro” Castellini che le prende proprio tutte, poi in difesa due colossi come Bruscolotti e Ferrario fanno il lavoro “sporco”, lasciando a Krol il tempo e lo spazio per disegnare geometrie impensabili per gli attaccanti: Pellegrini, Musella e Damiani. Gli azzurri sfiorano lo scudetto chiudendo terzi, arrivando a pochissime lunghezze dalla Juventus. L’anno successivo per i tifosi c’è ancora tanto divertimento con un bel quarto posto.

 

La storia si trasforma quasi in favola: troppo bella per essere vera. Con l’addio di Juliano si innesca una girandola di allenatori e dirigenti che spingono il Napoli a un passo dalla B in due stagioni consecutive. Eppure passano bei calciatori da queste parti come Ramon Diaz, gemello diverso di Maradona al mondiale juniores di Tokyo, Dirceu, brasiliano dalla folta chioma e dal piede vellutato. Dietro, fino al 1983, resta la classe e l’eleganza di Ruud Krol, che può poco però con una società così debole alle spalle.

L’arrivo di Maradona e l’inizio del periodo d’oro

 

 

 

Sono poche le date che un tifoso ricorda per tutta la vita. Quelli del Napoli oltre all’anno di grazia 1926, ricordano sicuramente anche il 5 luglio 1984, quando al San Paolo fece la sua presentazione un certo Diego Armando Maradona, il calciatore più forte di tutti i tempi. Il primo anno il ‘Pibe de oro’ salva gli azzurri dal baratro della Serie B, poi inizia una sua personale battaglia per strappare lo scudetto alle squadre del nord. Attorno all’argentino gravitano stelle meno lucenti, ma solo perché in campo c’è il sole che gioca con la maglia numero 10. Giordano e Carnevale andranno a comporre con Maradona la celeberrima MA – GI – CA, che strapazzerà le difese nostrane fino a cucirsi sul petto il tricolore, il 10 maggio 1987. E’ solo il primo di altri successi, tutti firmati dalla splendida genialità di Maradona. In quegli anni la bacheca dei trofei verrà arricchita con un secondo scudetto nella stagione 89/90, una Coppa Uefa, una Supercoppa italiana e una Coppa Italia (quando era ancora strutturato come un vero e proprio mini-campionato). A proposito, il Napoli detiene, per quella edizione, il record di 13 vittorie in 13 partite in Coppa Italia, numeri mai più eguagliati.

Il periodo d’oro termina con l’addio di Maradona nel 1991, con i tifosi consapevoli di aver assistito a qualcosa di irripetibile. Seguono altre buone stagioni con in campo personaggi come Zola e Fonseca, non proprio gli ultimi arrivati. E’ sul finire degli anni’90 che i problemi societari diventano non gravi, ma gravissimi, e la squadra inizia un altalenante su e giù tra A e B fino al fallimento del 2004. Altra data da ricordare, perché dalla Serie C sarà poi un’escalation inarrestabile fino ai vertici del calcio italiano e internazionale sotto la guida del presidente del nuovo millennio, Aurelio De Laurentiis.

 

di Vincenzo Matino (Twitter: @vincenzomatino)