Il rinnovo di Insigne, la riapertura degli stadi, gli inizi difficili: le parole di De Laurentiis a margine di una mostra dedicata a Maradona.
A Wembley sogna la vittoria di Euro 2020 con l’Italia, trascinata contro il Belgio grazie al suo proverbiale tiro a giro, marchio di fabbrica unico del suo repertorio: Lorenzo Insigne si sta regalando momenti indimenticabili per la sua carriera in azzurro, quello della Nazionale e non del Napoli, con cui bisognerà ragionare in ottica rinnovo del contratto in scadenza tra un anno. Un limite pericoloso che coinvolge anche altri grandi giocatori (Mbappé su tutti) e leva il sonno ai tifosi in queste notti afose: il rischio di perdere un patrimonio del club – ancor prima che giocatore e capitano – è concreto, e l’addio con l’aggravante del costo zero sarebbe un vero e proprio sfregio all’immagine.
Ipotesi che nessuno all’interno della società osa immaginare: in primis Aurelio De Laurentiis, intervenuto telefonicamente in occasione della presentazione di una mostra dedicata a Maradona. Il presidente è rimasto sul vago, ‘scaricando’ il peso delle responsabilità su Insigne: “E’ un prodotto del vivaio. Santoro, che è tornato con noi, è un napoletano che conosce bene il territorio e lo scovò molti anni fa. Dipende da lui: se però Insigne mi dirà che si è stancato, allora quella sarà una sua decisione e non di certo nostra“.
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Insigne è un vanto della città di Napoli in questa edizione degli Europei: “L’Italia si sta comportando bene e uno degli interpreti più interessanti è proprio Insigne, un napoletano. Devo dire che stavolta, nei giudizi, il Paese si è comportato bene. Mi sto recando a Milano per una riunione importante: il 25% degli spettatori allo stadio è una fregnaccia, io dico di aprire al 100% a chi ha il passaporto vaccinale. Un incentivo per gli ignorantoni che non vogliono vaccinarsi”.
Il ricordo si sposta al 2004, quando De Laurentiis assunse le redini del Napoli in Serie C: “Mi trovavo a Capri per un periodo di vacanza dopo un film e lì mi dissero che il Napoli era fallito. Pur non masticando nulla di calcio e contro il parere della mia famiglia, mi presi in carico anche gli impiegati e cominciai in C a campionato già iniziato. Giocavamo su dei campi di patate, gli avversari volevano quasi ammazzarci per il nostro blasone: c’era voglia di distruggerci“.
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