PAQUIPEDIA – Mazzarri, il meglio che è già venuto

Mazzarri

 

“Il meglio deve ancora venire”. Non me ne voglia Luciano Ligabue, ma quella citazione me la sarei risparmiata volentieri. Così come aggiungere il mio nome sulla copertina di un’autobiografia scritta da chissà chi. Ma, purtroppo, esser parte di questo meccanismo comporta onori, ma pure oneri che vanno rispettati, chinando il capo e ringraziando per l’attenzione.
Mi chiamo Walter Mazzarri e in quelle duecento e passa pagine ho provato a raccontare la mia carriera. Qui mi limito a raccontare un quadriennio, quello napoletano, forse il più importante della mia vita. No, non intendo far retorica, né aggraziarmi i tifosi azzurri. Non l’ho fatto tempo fa quando il destino me ne ha dato l’occasione, limitandomi a fare il mio lavoro nel miglior modo possibile. E pazienza se qualcuno, dopo aver cambiato squadra, m’ha chiamato traditore, mercenario o con altri epiteti che ho già dimenticato.
Non ho dimenticato, invece, Napoli. Città tanto simile alla mia San Vincenzo. Non per dimensioni, sia chiaro, né per mentalità. Mi riferisco al modo di vivere ogni situazione: col sangue che irrora qualsiasi capillare e ogni istante lo si vive senza risparmiarsi.
Va da sé che una partita su due la concluda in maniche di camicia, pure a gennaio inoltrato, a imprecare contro il terzino che sbaglia la diagonale oppure a urlare all’arbitro che mancano ancora dodici secondi alla fine della partita. Tempo prezioso per provare a fare un gol in più, per rimettere in carreggiata una partita data ormai per persa o per strappare tre punti quando tutti danno per scontato il pari.
Non credo sia necessario far l’elenco delle partite stravolte un attimo prima del fischio della fine, né ho come obiettivo ricevere il plauso da chi ricorda il sottoscritto come un allenatore “da Napoli”. Ho fatto le mie scelte seguendo logiche che, talvolta, non fanno rima col singolo pensiero di ogni tifoso azzurro. Accontentarne sei milioni e passa sarebbe impossibile, a malapena c’è riuscito il dio del calcio. Però qualcuno che mi rimpiange c’è ancora. Magari ricordando una rimonta, oppure quella finale di Coppa Italia in cui il mio Napoli annichilì l’imbattibile Juventus di Antonio Conte, ribadendo che nel calcio vince chi è più motivato e non chi ha più blasone.
Sono andato all’Inter, è vero, e l’ho fatto per un ricco contratto che ha dato soddisfazione a me e pure agli impiegati in banca che, per la prima volta, mi chiamavano dottore. Non dirò mai che ho fatto una cazzata, ma solo una scelta d’impeto che si è rivelata sbagliata. Cose che si mettono in conto quando si fa questo mestiere e capita pure di dover andare all’estero per ricominciare daccapo. Con un paio di fedelissimi e qualche calciatore da rivalutare.
E pure nella fredda terra d’Albione finisco per comportarmi alla stessa maniera di Napoli, San Vincenzo e pure Milano, vivendo ogni partita con le maniche arrotolate e la voce che, man mano sfuma, mentre urlo a uno Zuniga di rientrare.
Quando si è allenatori succede pure questo. E si mettono in conto i fischi dei tifosi o un esonero dopo dieci giornate. Storia vera di un’esperienza nerazzurra.
Per fortuna nella terra del dio del calcio, in quattro anni, non m’hanno mai messo in discussione. Anzi, ancora oggi dicono di me che sono stato e resto un allenatore “da Napoli”.

 

 

a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)

 

 

 

 

 

 

 

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