Perché Napoli è ancora (e resterà) una città sarrista

In periodi di crisi, c’è chi rifugge nel passato. Napoli è ancora e resterà a lungo una città sarrista, che piaccia o meno

Carlo Ancelotti Maurizio Sarri
Carlo Ancelotti Maurizio Sarri

«Eccolo qua, il classico pezzo saccente e radical chic, da intellattualoide che prova a paragonare Ancelotti e Sarri, urlando che si stava meglio quando si stava peggio». 

E invece no, potete tirare un sospiro di sollievo, argonauti del web imbattutivi in questo articolo. Il qualunquismo non ci appartiene e pertanto neanche il voler sparare sentenze. Figuriamoci, poi, in un periodo come questo inglorioso e troppo semplice da bastonare. Il Napoli sta vivendo uno dei suoi momenti più difficili e complessi della propria storia recente. Un momento che sta segnando una sorta di anno zero, di punto di non ritorno dal quale la società intende ripartire. Almeno non prima di aver sedato le rivolte interne. Un marasma che sta rivelando uno dei tanti e singolari paradossi di questa città: l’essere ancora fortemente sarrista.

Napoli e il Napoli non sapevano di essere ancora sarristi

Napoli è ancora (e resterà a lungo) una città a impronta fortemente sarrista. Al di là di quelli che possono essere dei meri e parzialmente inadatti paragoni con Ancelotti, il triennio di Sarri in azzurro ha rivoluzionato completamente il modo di pensare e giudicare il calcio in questa città. Nei vari salotti sportivi, dalle pay-tv ai bar di quartiere, si dà per scontato l’assioma che il Napoli debba giocare per forza bene. Un preconcetto introdotto dalla inattesa bellezza del ciclo sarriano e che Ancelotti aveva ripreso in parte nei momenti più felici della scorsa stagione. E tornando indietro alla gestione Benitez, di certo non era il bel giuoco a caratterizzare la formazione azzurra, rivalutata ed esaltata nei suoi undicesimi attraverso il lavoro illuminato del tecnico toscano.

Senza scadere nell’apologia di Sarrismo, non si può far finta di nulla sul personaggio (attenzione, non persona) che è stato Maurizio Sarri durante il suo ciclo al Napoli. Una figura burbera e paterna, che senza filtri è entrato in pieno connubio con lo spirito stesso della tifoseria napoletana. La sindrome dell’accerchiato, le minacce al Palazzo, la voglia matta di sovvertire il potere juventino: tutte qualità che hanno reso Sarri il comandante, l’uomo che per tre anni ha messo Napoli e il Napoli sul vero ed effettivo mappamondo dell’élite europea. Un allenatore venuto dal nulla che per un triennio ha personificato umori, capricci, contraddizioni e pregi di una piazza singolare e instabile emotivamente come quella napoletana.

Una città che adesso si è ritrovata orfana di tutto questo. E nel marasma della rivolta, le proteste e il dissenso spesso rimano e richiamano echi sarristi. Una Napoli che sente tremenda mancanza di quel gioco che ha rapito l’occhio dell’Europa intera e che rimpiange quella figura poco aziendalista, capace di rivaleggiare con il presidente e i suoi dettami. Inconsciamente, la città di Napoli è ancora profondamente sarrista, che piaccia o meno. Ed è in questi momenti di profonda crisi che stanno emergendo i reali rimpianti della piazza. Si piange il bel giuoco, si piange l’essere l’anti-Juve, si piange l’essere capitale e non provincia del Regno calcistico italiano. Si piange quel comandante divenuto anche lui un grigio aziendalista, con il completo bianco e nero.

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